su “l’Ippogrifo”, 40, 2016, pag. 3, Roberto Dall’Olio recensisce la mia raccolta dialettale Al fil źrudlà, Al.Ce, Ferrara 2015.

L’è el dì di mort, alegher

Delio Tessa

Qualcosa che è morto, qualcosa che non è ancora morto, qualcosa che non vuole morire, qualcosa che non morirà, stiamone certi e allegri, tiene insieme e insieme srotola il filo del libro in dialetto ferrarese di Edoardo Penoncini, storico di formazione, poeta per vocazione in lingua italiana, ma covante sotto la cenere una bragia di parole dure della sua lingua madre: il dialetto ferrarese di Ambrogio. Eccome la bragia dialettale la covava il Penoncini colto e un po’ segreto delle raccolte in lingua! Lo confessa egli stesso, sottolineando l’insolita velocità con cui ha gettato fuori i tizzoni ardenti di quel mondo che è morto, ma che non morirà, “il mondo di ieri”, richiamando il bel libro tremendo e umbratile di Stefan Zweig.
Uscito con la Presentazione di Diego Marani e l’Introduzione di Zena Roncada, Al fil źrudlà è scritto nella parlata che sgorgava come una fonte improvvisa, scovata dal bastone di un settimino rabdomante.
Sarei tentato di vedere che travaso del Penoncini in lingua emerge nel Penoncini dialettale, ma è un esercizio che in fondo non mi appartiene. Non siamo in una dimensione da provetta filologica quanto in una fluida manciata di fogli onesti, scritti in empatia con questo libro davvero coinvolgente e convincente, che butta fuori in dialetto, invecchiando, quello che ha tenuto dentro in italiano, traducendo Zavattini. Ma col dialetto quasi perduto, quali cose abbiamo perduto? Penoncini ci dice che abbiamo perso il tempo delle fiabe e con loro un mondo intero.
La schiettezza della secchezza di testi quali Ill guer o Al brut mal, mentre noi sprofondiamo nella ricotta della retorica ben condita, mi porta a pensare al Pasolini de Gli italiani in Poesia in forma di rosa, ma Penoncini riesce ad essere nostalgico senza ammaliare. Emerge spesso in questa silloge un’etica senza moralismo alcuno, che parla dei bambini di oggi costretti in tante parti del mondo a fare la guerra e li mette a confronto con quelli di ieri che facevano il giro tondo sotto gli sguardi della maestra o della suora; e ancora emerge l’intersezione tra mutamento e persistenza, quanto è cambiato e quanto rimane, come in Uη źógh par la réd dal ziél («E pó a gh’jéra tant putìŋ/ch’i gh’éva adòs l’arźént vìv,/par furtùna a gh’jéra sémpar/al curtìl da dré d’la céśa/uŋ pòst sicùr indóv źugàr/con dóŋ Tulo o da par nu.»). E sullo stesso binario si pensi a quell’essere ragazzi maschi senza cedere al maschilismo nella splendida Dó donn o a Cóm a iéraŋ na vòlta, efficace pennellata sul cambiamento che trasforma, quella mutazione antropologica ricordata da Pier Paolo Pasolini e fatta propria da Penoncini in uno degli eserghi d’inizio raccolta.
Da ultima, ma non ultima l’elegia nascosta, poiché in dialetto non esistono le elegie neanche a inventarle, per la sua città, che Penoncini dipinge con una franchezza estrema e dolce, quasi come l’estroversa cucina estense convergente tra il salato e il dolce, scomodando Levi Strauss. In particolare i versi di Frara nóa toccano tutto il tessuto lirico del camminatore flâneur Penoncini, che alla fine vorrebbe scappare via: «Fràra l’è sémpar stà na zità s’uŋ fìl/ch’l’andaśéva luŋgh al Po vèć/aqua davanti iŋ mèz e da dré/…/La jéra cmè uŋ źardìŋ/…/la parèva na fòla su na nuvla/propia cmè na zità ch’la vóla./…/e la guèra/…/quéla véra e quéla d’j’architét/pr’an dìr di du śgórbî ad zimént/ch’j’à farmà j’òć dal Castèl/e ad san Banadét prima dal ziél./…/mo sa źìr par la mè zità/ch’l’à pèrs i sileŋzî/e i vèć iŋ piàza/a m’iŋmaliŋcunìs/…/am viéŋ al magóŋ/e la vója ad scapàr jé.» No, invece è prigioniero di questa sua libertà dentro le mura della città, seppure esprimendosi con la lingua che si parlava mentre era attaccato al seno, nascendo come una volta si usava. Una lingua che sente tacere, arrotolarsi e annodarsi in un silenzio che pare letale. Perché? Perché lo dichiara l’autore con latina sacertà: “manca il bello quando si parla”.