Sono diverse volte che io torno qui a parlare della poesia di Edoardo Penoncini, anzi vorrei proprio dire che questa poesia mi ha addomesticata, ma nel senso etimologico più bello del termine. Addomesticare significa chiamare verso casa, ad domum, entrare dentro la casa, e io la frequento da così tanti anni questa poesia. Ne ho seguito l’esito, l’evoluzione, direi con gli occhi, col cuore e anche con le parole, al punto che quando la leggo, davvero, io mi sento a casa e sto bene perché è la poesia di un amico ed è una poesia che mi è diventata amica. Ecco è come quando si entra in quelle abitazioni che sono di famiglia, che conosci bene, ma in cui però basta un diverso orientamento dello sguardo, oppure direi una diversa pendenza o irradiazione della luce inedita dunque per scoprire qualche cosa di nuovo.
Ed è proprio con la stessa sensazione e con la medesima felicità della scoperta e del ritrovamento che io mi rapporto ai versi di Edoardo, perché ci pensavo proprio in questi giorni. Le case e la poesia hanno proprio questo in comune sono piene di cassetti, sono piene di pieghe, sono pieghe che contengono infinite cose. In queste pieghe si nascondo gli oggetti, si nascondono le parole. C’è anche un bel cercare nei nostri cassetti di casa di tenere separati gli oggetti. Capita invece che noi li infiliamo così, con disordine, senza trovare esattamente la loro collocazione, quindi il passaggio da un cassetto all’altro è continuo; nei cassetti di una casa c’è tutta la nostra vita quotidiana: ci sono i sogni, i sogni di viaggi che non abbiamo potuto fare, ma di cui magari conserviamo i depliant; abbiamo i biglietti, abbiamo la lista della spesa, abbiamo i foglietti su cui appuntiamo le parole e che, come tutte le minuterie, sono significanti per noi, per chi li vive come piccole metonimie e i cui ricordi si contraggono, ma restano lì.
È così la poesia di Edoardo: chiarisco bene, è ricca così. È ricca di metonimie che rimandano sempre a qualcosa di più grande, a qualcosa di affettivamente immenso, anche se minuscolo nella sua entità fisica.
Lui ci ha provato a fare un ordine ben preciso nella sua raccolta di poesie nuove, Sotto le palpebre.
Un volume che ha una prefazione bellissima, assolutamente precisa, assolutamente competente, direi, di Marzia Minutelli, che ha proprio attraversato queste quattro sezioni in cui si articola il libro. Le prime tre hanno dei nomi geometrici, quasi ci fosse bisogno della geometria per configurarle meglio. E infatti si chiamano Tangenti, Direzioni, Estensioni. Soltanto nell’ultima c’è una ri-caduta nell’affettivo e kil titolo di quest’ultima sezione è Risvolti di memoria.E non si distanzia se non per il tono maggiormente narrativo rispetto alle altre.
Ma anche se c’è stato questo tentativo di creare dei comparti, il tema vero, il tema più attraversato, più percorso, che attraversa proprio in modo trasversale questi quattro pezzetti è un tema unificante ed è immenso, perché è il tema del tempo.
E sulla costellazione lessicale del tempo verterà poi la nostra conversazione.
Io mi soffermo sulle soglie di questo tema, perché io credo che avere chiara la complessità del concetto di tempo possa essere una delle chiavi di ingresso sotto le palpebre di questa poesia.
Il tempo è un’entità inquieta, ingloba le nostre speranze, le nostre paure, le nostre proiezioni, ma anche il possesso intimo di ciò che c’è stato e di ciò che ci appartiene. Flumen, punctu, profundum nel De brevitate vitae Seneca definisce così con queste metafore il tempo. E queste figure così suggestive e così antiche si materializzano, secondo me, proprio nelle parole di questa raccolta. Ritroviamo il fiume del tempo, il tempo che ruit, il tempo che scorre, il tempo che fugge a cui ci ha abituato anche la filosofia degli antichi.
Ma l’idea del fiume in questo caso, in tutta la raccolta si configura come idea del viaggio, come idea dello scorrimento, fluido. È qui che scivola quell’entità piccolissima che si chiama barca e che diventa metafora sia della vita che va avanti e si lascia portare dallo scorrere del tempo-fiume, sia però l’aggancio a qualcosa di concreto che assomiglia tanto alla vita e non solo alla poesia.
Ma ritroviamo anche il punctum in questa raccolta, vale a dire l’attimo, l’attimo, che i greci chiamavano aἰώn, in cui si sgrana il presente, è la data a cui magari si appende la precisione di un ricordo del passato che sia «un volto pienotto» di una ragazza di cui un giovane Edoardo si è innamorato, di striscio forse, che sia l’armonica di un amico «anglofono», anzi anglofilo che ama la lingua inglese, e che forse la ripassa ormai sul suono di un’armonica, o che sia l’eco di un disco o ancora l’atmosfera di Parco Massari. Questi attimi sono punteggiati dagli incontri, non a caso la prima sezione s’intitola Tangenti. Le tangenti richiamano una tangenza, richiamano un incontro e io credo fermamente in ciò che dice Martin Buber circa l’incontro, quando afferma che è l’incontro a definirci e a cambiarci insieme.
Gli incontri di Penoncini sono notevolissimi, il poeta amico Roberto Pazzi, Marino Moretti, Virgilio Giotti, il maestro bizantinista Antonio Rocco Carile, Lao Paoletti specialista di filologia neolatina, poi gli amici, poi le cose perché gli incontri non sono soltanto momenti di contatto con le persone, ma sono momenti di contatto con i sentimenti e con le cose. È grande questa interpunzione affidata agli incontri. Questi incontri hanno veramente contrassegnato sia la tua linea di studio sia la tua linea di vita e molto spesso mi pare che facciano confluire le due strade in un unico percorso.
Il tempo in questi versi affiora sia come scansione, appunto, come tappa contrassegnata da questi punti importanti, sia come quel continuum di flusso che ci è toccato nel nostro segmento di vita, ma anche come profundum e profundum nella lettura di Seneca è l’abisso, è l’imbuto, l’imbuto senza fondo del tempo che si rimescola e che incombe su di noi, perché, quello sì, è eterno. Perché quello sì, proprio perché non ha fondo non ha neppure limiti.
E allora diventa il mare magnum dell’attesa, dei sogni, del futuro e dialoga con quella pila di libri accanto al comodino ancora da leggere o con quella pira che il nostro non brucerà mai di ricordi parole e idee accantonate.
Vi è il tempo della persistenza e del cambiamento, c’è una poesia che lo dice bene (pag. 47):
Tra il feriale e il festivo cosa cambia:/ l’orario ferroviario qui e là/ le serrande abbassate dei negozi/ i tocchi di campana per le messe/ nugoli di turisti sulla piazza;// ma della mia vita inquieta segnalo:/ la permanenza del moto dei tarli/ l’insofferenza per gli epicurei/ l’idolatria delle processioni/ l’equidistante sorriso di un giorno// se feriale o festivo cosa importa
Le cose permangono dentro la cornice del giorno e non importa se il giorno sia vestito a festa o abbia la tuta da lavoro di tutti i giorni. Dentro questa dimensione ci stanno dei punti fermi: i tarli, le insofferenze, le idolatrie, ma soprattutto il sorriso del giorno. Ma c’è anche il cambiamento dentro il tempo, accanto al persistere c’è il cambiare, perché la poesia di Edoardo accarezza e accompagna i due versi del vivere, l’andare e il tornare, il partire, l’arrivare e il ri-tornare con momenti diversi di crescita. Il vivere è il morire, i due versi dell’esistere, che comprendono il dolore e la gioia, il possesso e la perdita. In questi due versi non può non esserci il cambiamento. Incontrarsi e non riconoscersi (pag. 45):
Incontrarsi e non riconoscersi/ il tempo è un bozzettista/ disegna linee e curve/ su pergamena incolore/ la memoria un fermo immagine/ senza aggiornamenti/ di un mattino in sala d’attesa// è buffo come seduti accanto/ si aspetta la chiamata/ e la memoria si aggiorna/ con un nuovo fermo immagine/ quando una voce invita/ per la visita dal geriatra…/ nella magia dell’istante insieme/ riconoscere nome viso anni
Ciò che colpisce in questo tempo descritto, raccontato, sentito attraverso la poesia è l’impossibilità di calcolarlo in modo reale e allora come si fa a misurare il tempo? Se proprio vuole essere misurato questo tempo bisogna attendere il resoconto della sera, nelle tasche in cui si prepara il progetto per il domani. C’è una poesia che io adoro (pag. 48)
Le giacche con le tasche cucite/ non le sopporto, meglio se applicate/ da riempire anche se si sformano/ ome le tasche dei pantaloni// quando le svuoto di ritorno a casa/ ci sono cento cose/ uno scontrino un appunto un bottone/ le cose che ho toccato/ le cose immaginate// mi piacciono le tasche da riempire/ e la forbice trema mentre taglia/ il filo di quelle da aprire/ in questa sera vuota/ con una giacca nuova
Il tempo si conta con le cose, non con gli orologi, si conta con i segni che restano sul nostro corpo, sono i segni delle macchie sulle mani, del filo bianco alla tempia, è il tempo che si accampa nelle zone d’ombra e di luce delle età e poi è indifferente in realtà alle direzioni perché da corpo a tutte, è partenza e arrivo: questo è il tempo, è partenza e arrivo, naturalmente fra case. Infatti, in questi versi le case diventano assolutamente importanti, è come se il tempo si agganciasse a loro per trovare solidità e consistenza (pag. 82).
Là dove sta la casa/ quella della partenza/ che si sbriciola lenta/ o quella dell’arrivo/ bianca di nuova calce/ ovunque nulla toglie/ al tempo dell’attesa
E l’attesa si snoda fra queste case, che sono la casa del borgo, dell’albero su cui stare e quella di città con le sue librerie e le sue notti brevi.
Nell’ultima sezione, Risvolti di memoria, la casa ha una centralità
Vedi!/ Sono quelle le case del mio borgo/ e il campanile che suona la festa,/ là il posto mio, mi scorrono accanto/ le sorelle e il fratello, le memorie,/ per le strade avvampate tutto scorre./ La casa con il piccolo giardino…
E questa è la casa della partenza, la casa delle radici, è qui che è partito l’andare, che è iniziato il viaggio, il viaggio della nostra barca, il viaggio della poesia. Un andare così indefinito da avere bisogno di verbi all’infinito (pag. 65):
Partire sempre per andare ovunque/ per mare con una piccola barca/ potere sempre vincere il timore/ della profondità e della distanza// assecondare voglie d’avventure/ salire sempre per restare qui/ con tutte le paure dell’abisso/ e le distanze dai confini assenti// restare là sull’albero più alto/ insieme ai passeri a un passo da casa/ avvolto nel fumo di vini e nebbie( sempre là con il campanile-bussola// i suoi rintocchi a segnare le ore/ a disegnare orizzonti nel vento
Questo stemperare i verbi nell’infinito, sarebbe nel modo infinito, è uno degli espedienti, dei mezzi, degli strumenti per allargare il tiro, per uscire dall’individualità della persona e per aprire il verbo ad una coralità che è altrettanto presente proprio nell’uso della prima persona plurale (pag. 67):
Andiamo a contare i passi/ da un capo all’altro seguiamo tracce/ ci sono presenze ombre pensieri/ che faticano a divenire parole/ come ogni silenzio lasciamo un’eco
e questo noi non un pluralis maiestatis, è una condivisione, ma una condivisione che non denuda mai questo poeta così complesso. Non lo denuda perché resta al fondo una lacrima di pudore, persino nella poesia dedicata alla moglie, a Daniela, la prima che apre la raccolta (pag. 25):
“Cosa potresti dire se non nostro/ quello ch’è stato mio/ quello ch’è stato tuo/ abbiamo condiviso/ ogni tesoro della mente/ eppure non mi è mai riuscito/ di denudarmi completamente/ per liberarmi del gelido mio/ e della manomorta/ sui miei libri e le librerie“
Questo è pudore che trattiene la poesia da ogni eccesso e le conferisce invece una misura, una pacatezza anche nei racconti più intimi, anche nel racconto del dolore; è una delicatezza e una pacatezza che smussa le punte dei più aspri dei distacchi e regala invece alla distanza, la distanza per leggere i ricordi, per farli riemergere, però, c’è bisogno di un tu dialogico ecco perché quando ricorda Edoardo spesso si rivolge a un tu con una operazione assolutamente diversa da quella di Elio Vittorini, per dire, quando nei suoi brani più poetici di Conversazione in Sicilia, cerca la complicità della madre per ricordare. Ed è come se dal ventre della madre traesse i ricordi in un dialogo continuo, di rimando; qui no, Penoncini chiama a testimonianza dentro al suo ricordo, ma è il tu a muovere i fili della memoria. E per questo filo della memoria, nell’ultima sezione, si spalancano veramente i magazzini pieni di parole; la parola viene usata nel modo più tenero e anche più elegiaco che non in tutte le altre parti della raccolta, regala la distanza il pudore anche dei ricordi, non il distacco. La distanza è il filo che serve al poeta per mantenere una posizione di sguardo complessivo, non soltanto legato al particolare ed è forse per questo che in questa poesia ho trovato la saggezza, parola difficile da usare e che non amo tanto, perché penso si possa maturare anche senza saggezza. Qui, però, c’è un altro tipo di saggezza, quella che confina con la sapienza, se andiamo a recuperare uno dei primi significati del concetto di sapienza, dal verbo sapere, che vuol dire avere sapore. Qui io credo di avere trovato la sapienza che nasce dal saper cogliere il sapore della vita.