Nota di Nevio Spadoni a “La bléza”, Puntoacapo, Pasturana (AL) 2022

Direi che il coraggio di Edoardo Penoncini ad uscir fuori dalla “tor­re d’avorio” della sua città e pubblicare e confrontarsi con la grande poesia neodialettale italiana, è stato ampiamente pre­miato. Già con le raccolte precedenti il poeta ha mostrato il me­glio di sé: e se in Al paréa uƞ fógh ad paja (Sembrava un fuoco di paglia), for­te è lo sgomento per la perdita dei nostri luoghi, delle nostre ca­se e soprattutto della lingua con l’indurimento del cuore di fronte al dilagare di una crescente disu­ma­nizza­zione, in La bléza (La bellezza) abbiamo per così dire un recu­pero del­la speranza. “Nella deserta bellezza di Ferrara” il No­stro pa­re sottolineare il convinci­mento di Dostoevskij che solo la bel­lezza potrà salvare il mondo. Chissà perché queste liriche mi hanno portato a rileggere quanto il romagnolo Tonino Guer­ra ha scritto a proposito della bellezza, fa­cen­do riferimento alla pri­ma volta che la moglie russa Lora lo ha portato a visitare il Bolshoi: “…sembrava che tutti i palchi / fos­se­ro una montagna d’oro / che mi cadeva addosso. /E io stavo con la schiena pie­gata; / ma tu mi hai detto: “Stai dritto che la bellezza non pesa”. È in fondo quello che Penoncini af­ferma: la bellezza è legge­ra,” è un sogno negli occhi di un vec­chio”, “sono i soffi dell’or­gano in chiesa”, “è quella luce che cer­chiamo per rinascere og­gi”; è profumo, colore, insomma, brama di vivere perché siamo dentro questo circuito d’amore. I versi nella loro musicalità e le­vità ci fanno ulteriormente apprezzare queste liriche nate dal­la so­litudine contemplativa del mondo, e dal cuore di un vero poeta che con occhio puro ha amato e ama la vita in tutte le sue espressioni.

Ravenna, 11 ottobre 2022

Nota di zena Roncada a “Sotto le palpebre”, pref. di Marzia Minutelli, Puntoacapo, Pasturana 2021.

Sono diverse volte che io torno qui a parlare della poesia di Edoardo Penoncini, anzi vorrei proprio dire che questa poesia mi ha addomesticata, ma nel senso etimologico più bello del termine. Addomesticare significa chiamare verso casa, ad domum, entrare dentro la casa, e io la frequento da così tanti anni questa poesia. Ne ho seguito l’esito, l’evoluzione, direi con gli occhi, col cuore e anche con le parole, al punto che quando la leggo, davvero, io mi sento a casa e sto bene perché è la poesia di un amico ed è una poesia che mi è diventata amica. Ecco è come quando si entra in quelle abitazioni che sono di famiglia, che conosci bene, ma in cui però basta un diverso orientamento dello sguardo, oppure direi una diversa pendenza o irradiazione della luce inedita dunque per scoprire qualche cosa di nuovo.

Ed è proprio con la stessa sensazione e con la medesima felicità della scoperta e del ritrovamento che io mi rapporto ai versi di Edoardo, perché ci pensavo proprio in questi giorni. Le case e la poesia hanno proprio questo in comune sono piene di cassetti, sono piene di pieghe, sono pieghe che contengono infinite cose. In queste pieghe si nascondo gli oggetti, si nascondono le parole. C’è anche un bel cercare nei nostri cassetti di casa di tenere separati gli oggetti. Capita invece che noi li infiliamo così, con disordine, senza trovare esattamente la loro collocazione, quindi il passaggio da un cassetto all’altro è continuo; nei cassetti di una casa c’è tutta la nostra vita quotidiana: ci sono i sogni, i sogni di viaggi che non abbiamo potuto fare, ma di cui magari conserviamo i depliant; abbiamo i biglietti, abbiamo la lista della spesa, abbiamo i foglietti su cui appuntiamo le parole e che, come tutte le minuterie, sono significanti per noi, per chi li vive come piccole metonimie e i cui ricordi si contraggono, ma restano lì.

È così la poesia di Edoardo: chiarisco bene, è ricca così. È ricca di metonimie che rimandano sempre a qualcosa di più grande, a qualcosa di affettivamente immenso, anche se minuscolo nella sua entità fisica.

Lui ci ha provato a fare un ordine ben preciso nella sua raccolta di poesie nuove, Sotto le palpebre.

Un volume che ha una prefazione bellissima, assolutamente precisa, assolutamente competente, direi, di Marzia Minutelli, che ha proprio attraversato queste quattro sezioni in cui si articola il libro. Le prime tre hanno dei nomi geometrici, quasi ci fosse bisogno della geometria per configurarle meglio. E infatti si chiamano Tangenti, Direzioni, Estensioni. Soltanto nell’ultima c’è una ri-caduta nell’affettivo e kil titolo di quest’ultima sezione è Risvolti di memoria.E non si distanzia se non per il tono maggiormente narrativo rispetto alle altre.

Ma anche se c’è stato questo tentativo di creare dei comparti, il tema vero, il tema più attraversato, più percorso, che attraversa proprio in modo trasversale questi quattro pezzetti è un tema unificante ed è immenso, perché è il tema del tempo.

E sulla costellazione lessicale del tempo verterà poi la nostra conversazione.

Io mi soffermo sulle soglie di questo tema, perché io credo che avere chiara la complessità del concetto di tempo possa essere una delle chiavi di ingresso sotto le palpebre di questa poesia.

Il tempo è un’entità inquieta, ingloba le nostre speranze, le nostre paure, le nostre proiezioni, ma anche il possesso intimo di ciò che c’è stato e di ciò che ci appartiene. Flumen, punctu, profundum nel De brevitate vitae Seneca definisce così con queste metafore il tempo. E queste figure così suggestive e così antiche si materializzano, secondo me, proprio nelle parole di questa raccolta. Ritroviamo il fiume del tempo, il tempo che ruit, il tempo che scorre, il tempo che fugge a cui ci ha abituato anche la filosofia degli antichi.

Ma l’idea del fiume in questo caso, in tutta la raccolta si configura come idea del viaggio, come idea dello scorrimento, fluido. È qui che scivola quell’entità piccolissima che si chiama barca e che diventa metafora sia della vita che va avanti e si lascia portare dallo scorrere del tempo-fiume, sia però l’aggancio a qualcosa di concreto che assomiglia tanto alla vita e non solo alla poesia.

Ma ritroviamo anche il punctum in questa raccolta, vale a dire l’attimo, l’attimo, che i greci chiamavano aἰώn, in cui si sgrana il presente, è la data a cui magari si appende la precisione di un ricordo del passato che sia «un volto pienotto» di una ragazza di cui un giovane Edoardo si è innamorato, di striscio forse, che sia l’armonica di un amico «anglofono», anzi anglofilo che ama la lingua inglese, e che forse la ripassa ormai sul suono di un’armonica, o che sia l’eco di un disco o ancora l’atmosfera di Parco Massari. Questi attimi sono punteggiati dagli incontri, non a caso la prima sezione s’intitola Tangenti. Le tangenti richiamano una tangenza, richiamano un incontro e io credo fermamente in ciò che dice Martin Buber circa l’incontro, quando afferma che è l’incontro a definirci e a cambiarci insieme.

Gli incontri di Penoncini sono notevolissimi, il poeta amico Roberto Pazzi, Marino Moretti, Virgilio Giotti, il maestro bizantinista Antonio Rocco Carile, Lao Paoletti specialista di filologia neolatina, poi gli amici, poi le cose perché gli incontri non sono soltanto momenti di contatto con le persone, ma sono momenti di contatto con i sentimenti e con le cose. È grande questa interpunzione affidata agli incontri. Questi incontri hanno veramente contrassegnato sia la tua linea di studio sia la tua linea di vita e molto spesso mi pare che facciano confluire le due strade in un unico percorso.

Il tempo in questi versi affiora sia come scansione, appunto, come tappa contrassegnata da questi punti importanti, sia come quel continuum di flusso che ci è toccato nel nostro segmento di vita, ma anche come profundum e profundum nella lettura di Seneca è l’abisso, è l’imbuto, l’imbuto senza fondo del tempo che si rimescola e che incombe su di noi, perché, quello sì, è eterno. Perché quello sì, proprio perché non ha fondo non ha neppure limiti.

E allora diventa il mare magnum dell’attesa, dei sogni, del futuro e dialoga con quella pila di libri accanto al comodino ancora da leggere o con quella pira che il nostro non brucerà mai di ricordi parole e idee accantonate.

Vi è il tempo della persistenza e del cambiamento, c’è una poesia che lo dice bene (pag. 47):

Tra il feriale e il festivo cosa cambia:/ l’orario ferroviario qui e là/ le serrande abbassate dei negozi/ i tocchi di campana per le messe/ nugoli di turisti sulla piazza;// ma della mia vita inquieta segnalo:/ la permanenza del moto dei tarli/ l’insofferenza per gli epicurei/ l’idolatria delle processioni/ l’equidistante sorriso di un giorno// se feriale o festivo cosa importa

Le cose permangono dentro la cornice del giorno e non importa se il giorno sia vestito a festa o abbia la tuta da lavoro di tutti i giorni. Dentro questa dimensione ci stanno dei punti fermi: i tarli, le insofferenze, le idolatrie, ma soprattutto il sorriso del giorno. Ma c’è anche il cambiamento dentro il tempo, accanto al persistere c’è il cambiare, perché la poesia di Edoardo accarezza e accompagna i due versi del vivere, l’andare e il tornare, il partire, l’arrivare e il ri-tornare con momenti diversi di crescita. Il vivere è il morire, i due versi dell’esistere, che comprendono il dolore e la gioia, il possesso e la perdita. In questi due versi non può non esserci il cambiamento. Incontrarsi e non riconoscersi (pag. 45):

Incontrarsi e non riconoscersi/ il tempo è un bozzettista/ disegna linee e curve/ su pergamena incolore/ la memoria un fermo immagine/ senza aggiornamenti/ di un mattino in sala d’attesa// è buffo come seduti accanto/ si aspetta la chiamata/ e la memoria si aggiorna/ con un nuovo fermo immagine/ quando una voce invita/ per la visita dal geriatra…/ nella magia dell’istante insieme/ riconoscere nome viso anni

Ciò che colpisce in questo tempo descritto, raccontato, sentito attraverso la poesia è l’impossibilità di calcolarlo in modo reale e allora come si fa a misurare il tempo? Se proprio vuole essere misurato questo tempo bisogna attendere il resoconto della sera, nelle tasche in cui si prepara il progetto per il domani. C’è una poesia che io adoro (pag. 48)

Le giacche con le tasche cucite/ non le sopporto, meglio se applicate/ da riempire anche se si sformano/ ome le tasche dei pantaloni// quando le svuoto di ritorno a casa/ ci sono cento cose/ uno scontrino un appunto un bottone/ le cose che ho toccato/ le cose immaginate// mi piacciono le tasche da riempire/ e la forbice trema mentre taglia/ il filo di quelle da aprire/ in questa sera vuota/ con una giacca nuova

Il tempo si conta con le cose, non con gli orologi, si conta con i segni che restano sul nostro corpo, sono i segni delle macchie sulle mani, del filo bianco alla tempia, è il tempo che si accampa nelle zone d’ombra e di luce delle età e poi è indifferente in realtà alle direzioni perché da corpo a tutte, è partenza e arrivo: questo è il tempo, è partenza e arrivo, naturalmente fra case. Infatti, in questi versi le case diventano assolutamente importanti, è come se il tempo si agganciasse a loro per trovare solidità e consistenza (pag. 82).

Là dove sta la casa/ quella della partenza/ che si sbriciola lenta/ o quella dell’arrivo/ bianca di nuova calce/ ovunque nulla toglie/ al tempo dell’attesa

E l’attesa si snoda fra queste case, che sono la casa del borgo, dell’albero su cui stare e quella di città con le sue librerie e le sue notti brevi.

Nell’ultima sezione, Risvolti di memoria, la casa ha una centralità

Vedi!/ Sono quelle le case del mio borgo/ e il campanile che suona la festa,/ là il posto mio, mi scorrono accanto/ le sorelle e il fratello, le memorie,/ per le strade avvampate tutto scorre./ La casa con il piccolo giardino…

E questa è la casa della partenza, la casa delle radici, è qui che è partito l’andare, che è iniziato il viaggio, il viaggio della nostra barca, il viaggio della poesia. Un andare così indefinito da avere bisogno di verbi all’infinito (pag. 65):

Partire sempre per andare ovunque/ per mare con una piccola barca/ potere sempre vincere il timore/ della profondità e della distanza// assecondare voglie d’avventure/ salire sempre per restare qui/ con tutte le paure dell’abisso/ e le distanze dai confini assenti// restare là sull’albero più alto/ insieme ai passeri a un passo da casa/ avvolto nel fumo di vini e nebbie( sempre là con il campanile-bussola// i suoi rintocchi a segnare le ore/ a disegnare orizzonti nel vento

Questo stemperare i verbi nell’infinito, sarebbe nel modo infinito, è uno degli espedienti, dei mezzi, degli strumenti per allargare il tiro, per uscire dall’individualità della persona e per aprire il verbo ad una coralità che è altrettanto presente proprio nell’uso della prima persona plurale (pag. 67):

Andiamo a contare i passi/ da un capo all’altro seguiamo tracce/ ci sono presenze ombre pensieri/ che faticano a divenire parole/ come ogni silenzio lasciamo un’eco

e questo noi non un pluralis maiestatis, è una condivisione, ma una condivisione che non denuda mai questo poeta così complesso. Non lo denuda perché resta al fondo una lacrima di pudore, persino nella poesia dedicata alla moglie, a Daniela, la prima che apre la raccolta (pag. 25):

Cosa potresti dire se non nostro/ quello ch’è stato mio/ quello ch’è stato tuo/ abbiamo condiviso/ ogni tesoro della mente/ eppure non mi è mai riuscito/ di denudarmi completamente/ per liberarmi del gelido mio/ e della manomorta/ sui miei libri e le librerie

Questo è pudore che trattiene la poesia da ogni eccesso e le conferisce invece una misura, una pacatezza anche nei racconti più intimi, anche nel racconto del dolore; è una delicatezza e una pacatezza che smussa le punte dei più aspri dei distacchi e regala invece alla distanza, la distanza per leggere i ricordi, per farli riemergere, però, c’è bisogno di un tu dialogico ecco perché quando ricorda Edoardo spesso si rivolge a un tu con una operazione assolutamente diversa da quella di Elio Vittorini, per dire, quando nei suoi brani più poetici di Conversazione in Sicilia, cerca la complicità della madre per ricordare. Ed è come se dal ventre della madre traesse i ricordi in un dialogo continuo, di rimando; qui no, Penoncini chiama a testimonianza dentro al suo ricordo, ma è il tu a muovere i fili della memoria. E per questo filo della memoria, nell’ultima sezione, si spalancano veramente i magazzini pieni di parole; la parola viene usata nel modo più tenero e anche più elegiaco che non in tutte le altre parti della raccolta, regala la distanza il pudore anche dei ricordi, non il distacco. La distanza è il filo che serve al poeta per mantenere una posizione di sguardo complessivo, non soltanto legato al particolare ed è forse per questo che in questa poesia ho trovato la saggezza, parola difficile da usare e che non amo tanto, perché penso si possa maturare anche senza saggezza. Qui, però, c’è un altro tipo di saggezza, quella che confina con la sapienza, se andiamo a recuperare uno dei primi significati del concetto di sapienza, dal verbo sapere, che vuol dire avere sapore. Qui io credo di avere trovato la sapienza che nasce dal saper cogliere il sapore della vita.

Giudizio della Giuria

Periferie Aprile/Settembre 2021, pag 16

Premio Città di Ischitella-Pietro Giannnone 2021

Finalista con la raccolta in dialetto emiliano di Ferrara “La bléza – La bellezza

Il tema era ed è rischioso. Occorre consapevolezza dei motivi e dei mezzi espressivi e un ottimo background per avventurarsi in un canzoniere d’amore e di bellezza tanto frequentato nella poesia di tutti i tempi. La possibilità di scivolare sull’ovvio del discorso abusatissimo è sempre dietro l’angolo; tuttavia, Penoncini argomenta la sua strutturazione ‘a tema’ coniugando felicità di scrittura, una sostanziale levità e luminosità rara e mai scontata, di risonanza rinascimentale, con una congruità di stile, semplice e raffinato insieme, che coniuga prosa e poesia. Versi sapientemente modulati a un gusto mai arretrato; elegante senza mai darlo a vedere, ipercolto e apprezzabile nella sua fede incrollabile: “la bellezza resterà anche dopo questi giorni”.

Per una presentazione (prevista oggi 23 marzo e annullata) al tempo del Covid-19

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Oggi alla Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara avrei presentato, seguendo la traccia sottoriportata, la silloge di racconti di Zena Roncada, Le bambine. Storie di sguardi sottovoce, Pentagora, Savona 2019.

Anche l’editore, che ringrazio, ha voluto riportare il testo sul suo blog (Blog.Pentagora.it).

Se dovessi inserire un esergo a questa breve presentazione sceglierei una annotazione del 10 dicembre 1938 dal Mestiere di vivere di Pavese:

«L’infanzia non è soltanto l’infanzia vissuta, ma l’idea che ce ne facemmo nella giovinezza, nella maturità, ecc. Per questo appare l’epoca più importante: perché la più arricchita dai ripensamenti successivi” (10 dicembre 1938) e la completerei con le parole di Zena da un post pubblicato il 10 dicembre 2019 nella sua pagina facebook: «Vivere tutte le proprie età significa continuare ad avere il cuore ingombro di passioni: riviversi ogni giorno da persone intere, incantarsi, provare meraviglia di fronte alle cose, alle parole e alle persone: lasciare accese le luci, anche quelle di casa, per vedere il bello che c’è nella realtà e ritrovare la dolcezza in qualsiasi cosa».

Ma dove eravamo rimasti?
14-04-2014 la presentazione di Margini. Storie di donne e uomini senza storia, 17 ottobre 2016 quella di Qui come altrove. Eravamo rimasti all’umano di un mondo sostanzialmente di adulti con lo sfondo privilegiato del fiume, il Po, con qualche scappatella verso la città o la riviera romagnola. La vita delle persone di un borgo che ci veniva restituito intatto dalla penna della Roncada. E cosa si può fare con una penna se non scrivere parole? Quelle parole che, scriveva Heidegger, «non sono parole per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare».
Nella presentazione di Qui come altrove avevo letto una poesia di Fabio Franzin, Daa seménzha dei sésti / Dalla semenza dei gesti, dove il poeta di Motta di Livenza ricordava che «L’è dai sésti che nasse ‘e paròe / è dai gesti che nascono le parole», e a quella poesia ho ripensato leggendo le righe conclusive dell’ultimo racconto “sinottico” (sinottico perché l’ultimo è “fuori catalogo” come appendice e ben più lungo dei precedenti ventinove), La bambina della vecchia con la sporta: «Capì che le parole sono gesti: possono far felici, come un regalo mai aspettato, mai richiesto».

Avvicinarsi alla scrittura di Zena Roncada è un mettersi alla finestra, osservare il passaggio e contemplare il paesaggio grazie a uno stile sempre lieve, pulito, un lessico preciso che restituisce il sapore e il valore del ricordo, individuale e collettivo, insegna i mestieri, le piante, i fiori, la gente nella quotidianità con i tic e le minutaglie. Questa poesia è lo specchio nel quale ci osserviamo e ci perdiamo, non ci disperdiamo, perché le bambine della Roncada sono una compensazione a ciascuno di noi per quel tralasciare ciò che è sempre stato il tesoro della nostra esistenza, l’affetto per le cose, il quale discende dagli affetti più grandi. Le cose erano la bambola di pannolenci, il chiosco “sull’orlo del sagrato”, la bottega dei semi e tutte quelle cose ingoiate oggi dai centri commerciali o rimaste vive solo nel ricordo.
Bisogno di nostalgia, allora, la silloge di Roncada? No, piuttosto direi un invito a scoprire oggi l’infanzia per i suoi bisogni, il diritto all’attenzione, alla condivisione, all’accompagnamento verso il futuro, perché le bambine che incontriamo nella silloge sono tanti tratti di umanità spensierata, nella durezza, sì, della vita vissuta ma con un cielo azzurro che si apre davanti agli occhi, senza l’improbabile mito dell’effimero che annienta oggi tante infanzie.

Ma cos’ha la scrittura della Roncada di tanto speciale? Nulla, verrebbe da dire, ma è nulla la discrezione, raccontare sottovoce, la semplicità, l’assenza della banalità? Sono parole sobrie quelle che leggiamo, parole che comprendiamo subito, costrutti lineari senza sospensioni e incidentali a distogliere l’attenzione, poi… poi la sonorità, è una prosa che canta. Si legga l’incipit del racconto d’apertura, La bambina della bottega dei semi, nelle prime 12 righe abbiamo 5 periodi brevi costituiti da 11 endecasillabi, 2 settenari, 2 decasillabi ipermetri e un dodecasillabo, e se vogliamo uscire dalla conta delle sillabe, ecco un esempio dove comunque ogni parola suona: «La svegliò il silenzio, quello fermo e compatto della notte fonda, quando la civetta non sfrangia più le ore e nella strada non gira il grido della luna». (La bambina dello spirù)

A volte si suole dire che la scrittura è un dono, certo madre natura qualche dono ce lo fa, ma la scrittura è un dono che ci fa solo la lettura. e l’esito in Zena è frutto di centinaia e centinaia di buone letture, lasciandosi scientemente rapire, fagocitando tutto, mescolando e restituendo tutto con un proprio stile. Ecco cos’ha di tanto speciale la scrittura di Zena Roncada, è una scrittura sempre viva, una sonorità interiore che ritorna ricordi e immagini, profumi e sorrisi. Sedimenti depositati in un luogo, isotopici verrebbe da dire, e riemersi, magari, in un giardino pensile nel quale entrare con tanti angoli di lettura e di scrittura, da dove Zena ci restituisce quello che avevamo seppellito nei meandri del nostro povero e anche un po’ cupo presente.

La narrazione si trasforma in descrizione con cadenze metriche, il trasporto “retorico” induce il lettore a far propria l’onda e a cullarsi dentro un miele sempre più dolce. Una sintassi che non ingarbuglia, limpida, come il lessico con qualche licenza in dialetto: brisa, bugàdi, con qualche regionalismo (gibigiana, slentare e sgrisolare), e non manca qualche neologismo (pianellare, indistinguere), come le descrizioni così precise, così ricche e arricchenti, si pensi alla varietà dei fiori delle piante degli animali.
Poi l’inserimento delle citazioni di filastrocche: «Manina bella manina, cos’hai mangiato stamattina?…» (La bimba dello spirù), le canzoni: Amapola «la sfinge del mio cuore sei tu sola», Maria la-O «tu mi fai sognar» ne La bambina nella sala, figlia di «un padre che non c’era e non si sapeva e dei silenzi in casa», ma piena d’ammirazione quella sera, mentre «Sua mamma ballava e non sapeva nulla» delle maliziose risate degli uomini: «Era così bella e giovane, sua mamma»; o Campagnola bella tu sei la reginella che «alla piccolina sembrò il canto delle sirene» in chiusura de Le Bambine del mare e del libro. E se l’incipit del salmo 42: «Come cerva che assetata/ brama l’acqua di un ruscel,/ così l’anima turbata/ con speranza volgo al ciel», inno della chiesa valdese, dove la cerva che cerca l’acqua è l’anima angosciata che cerca conforto in Dio, apre il racconto La bambina della Morgana, con il nonno che entra canticchiando nella bottega, il racconto si chiude col buio in attesa dei burattini mentre la fisarmonica accompagna le parole “pagane” di una breve poesia con Fagiolino che, con il conforto della Fata Morgana, potrà accorrere per la libertà della principessa: «La fata Morgana/ sarà a te vicino,/ nessuna tema/ mio buon Fagiolino…»
E i sottesi richiami al governo Tambroni (giugno-luglio 1960) e ai «giorni delle lotte, là, in campagna, con la celere tutta dispiegata, crumiri e braccianti sui due fronti» (La bambina della vecchia con la sporta) che ci dicono gli anni di quelle bambine oggi. Oppure quel periodo (anni Cinquanta) quando le mimose erano «roba rossa, troppo rossa» per la signora della villa, solo gialla per l’innocente bambina: «Ma la mimosa è gialla!!!, disse la bambina. La mamma le mise una mano sulla bocca».

Le bambine di questa raccolta non sono quelle di Fine dell’infanzia montaliana «in cui le nubi non sono cifre o sigle/ ma le belle sorelle che si guardano viaggiare/… nell’età illusa» (corsivo mio). Qui c’è l’età della curiosità, della sorpresa, della magia, dello stupore, della meraviglia, dei desideri, delle infrazioni, del pudore, della vergogna per una piccola bugia e del pentimento che nasce dentro, della paura del buio, dell’immaginario animale e di quelle che oggi diremmo false notizie, ahimè con pompa anglica.
Nel racconto La bambina del cimitero (e chiudo) è emblematica la bambina che trasgredisce, una finestra su quell’infanzia di giochi inventati «senza paura alcuna… solo col disagio, che grattava al fondo, di una bugia a metà» dentro un cimitero (dove «cosa mai poteva accadere di cattivo?» che richiama tanto il «giocavo ignaro» del sonetto Alla mia nutrice, secondo testo del Canzoniere di Saba: «Qui – mi sovviene – nell’età primiera,/ del vecchio camposanto fra le croci,/ giocavo ignaro sul far della sera».
Si potrebbe andare più lontano con gli accostamenti, le allusioni soffuse, eppure oggi dove non solo in “altri mondi” l’infanzia viene negata, la Roncada ci ha dato un vademecum per riportare l’infanzia, le sue cose, i suoi gesti e le sue parole, alla naturalezza e spontaneità degli affetti, al donarsi ai bambini negando l’imperante filosofia del do ut des, restituendoci, per dirla con Pavese, “stampi di un’infanzia”.

Recensione a “Fortissimno” di Matteo Bianchi

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Matteo Bianchi, Fortissimo.Poesie, Minerva, Bologna 2019

Sola speranza oh lieve
Che di noi fa la vita trasmutarsi
Senza sole disfarsi come neve
Viltà tepore fuoco di cui arsi

(G. Giudici)

Se Fortissimo, titolo che richiama per stessa ammissione dell’Autore Pianissimo, è una provocazione, forse, allora, richiama anche Fortezza e quindi sfida il Lettore cartaceo, quello che assapora – ben diverso dall’internauta prevalentemente feisbukiano – il libro annusandolo, piegandolo; talvolta imbizzarrendosi per l’impossibilità di addomesticarlo lo maltratta, lo abbandona tra altri per poi tornare, penitente, a riprenderlo perché le sfide sono sempre avvincenti, anche quando è forte il rischio di uscirne sconfitti.
Fortissimo è la quarta silloge del trentaduenne Matteo Bianchi, edita da Minerva Soluzione Editoriali nella neonata collana «destinata ai giovani poeti», Cleide, diretta da Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi. Operazione lodevole, ma forse, nonostante l’età, per Bianchi si potrebbe dire che la definizione vada un po’ stretta, perché Fortissimo rappresenta un tassello del suo percorso che evidenzia una crescita costante, non diremo tanto rispetto alla raccolta d’esordio, Fischi di merlo, dove ad ogni pagina troviamo il «momento aurorale» del poeta, quanto a La metà del letto (Barbera 2015) che indirizza decisamente verso la maturità il Nostro. È silloge, Fortissimo, che inserisce il Bianchi in un “catalogo” dei poeti ormai consolidati.
Un poeta che pur frequentando i social ben si guarda – e di questo si ringrazia il Cielo – dal pubblicare in rete i propri testi, proprio perché la scrittura richiede un continuo ritorno – Sbarbaro docet – al testo per quella limatura che ci permette di distinguere a prima vista il poeta dal versificatore, l’originalità dalla ripetitività. Poi resta vera l’affermazione di Giulio Ferroni che la letteratura è ovunque, ma questo è il punto: cosa è letteratura, cosa degno di oltrepassare il presente virtuale, la poesia visiva o l’oralità dello slam, dove più della parola, e la poesia è parola, quasi sempre vale la prestazione.
Ecco allora una buona occasione per plaudire alla poesia e al coraggio di intraprendere percorsi diversi della propria scrittura: «Rileggersi ogni volta significa accettare il proprio cambiamento, sebbene parziale, e asciugarsi buttando qualche vecchio abito fuori luogo per l’io lirico attuale» (pag. 7). Bianchi lo fa con una raccolta divisa in due sezioni, una “prosastica” (Diario di un amore) e una poetica (Mezzo Piano), e in premessa un’intervista che dice tanto del fare poesia e dell’essere poeta di Matteo Bianchi. Due sezioni per un canzoniere d’amore condensate nella dedica: «a M./ per l’ennesima possibilità», perché è solo in amore che esiste l’ennesimo e dove si può giocare con la parola perdóno/per-dono (pag. 26). Senza perdono e senza gratuità (un dono è sempre gratuito) non esiste amore.
Nella prima sezione la passione si snoda nell’arco temporale di nove mesi, periodo che contrassegna la gestazione, l’attesa, movimenti di andata e ritorno (con una Canossa all’orizzonte) tra flash del quotidiano: «Infilavi il cappotto e arrotolavi la sciarpa intorno al collo… seguirti con lo sguardo da una camera all’altra scalza e pensierosa con il plaid a scacchi sulle spalle» (pag. 28), improbabili speranze come «foglie d’autunno che rimangono sui rami, rondini d’inverno sui cavi spaiati» (pag. 29); poi l’uomo che nasce: «Ho deciso precisamente tre anni fa, che non avrei più usato nessuno. Che fosse per piacere carnale, o ambizioni di carriera, non ho più voluto ferire a tradimento e continuo a tracciare la mia rotta senza spada» (pag. 47), senza rinnegare nulla «in modo che la nostra vita sia tutt’uno con la nostra morte» (pag. 48). Parole d’antan vien fatto di pensare, se non fosse per quelle promesse ormai anche da uomo di casa, per l’esecuzione di quei lavoretti come riavvitare le viti del tavolo perché non sporgano più e perché là una bambina «un giorno correrà a nascondersi mentre prepariamo il pranzo, ancora con il pigiama addosso e i capelli incasinati, credendo di non essere trovata» (pag. 49).
Prosa poetica, colta che si distende tra esplicite citazioni letterarie Dante, Pavese, Buzzati, Char o alluse, Roberto Pazzi, Shakespeare…
Nella prima sezione della raccolta Bianchi resta avvolto su sé stesso, nel mondo dei propri affetti scandito in un preciso arco cronologico, nella seconda sezione l’arco è dato nel sottotitolo, un decennio (2008-2018) di scrittura nel corso del quale il lavoro sulla parola indica la svolta con l’allontanamento dai suoni e «dagli schemi della tradizione, quasi fossero un mito per non sentirmi solo» (pag. 8). Il poeta non teme più la solitudine, ma la vede nello spazio emblematico del Mezzo piano.
Esiste il proprio mondo, tra testi che muovono nella scala passato/presente, il mondo altro si palesa nella possibilità del mezzo piano dove avviene l’incontro tra condomini, ma sono incontri casuali, come se l’altro fosse poco più di un’ombra molto meno di un’interazione tra persone, o forse l’interazione è più profonda nell’incontro sul mezzanino, là dove viene fatto di pensare che non s’incontrano altri, ma gli stessi personaggio e poeta, sul mezzo piano l’uno si smembra, si fa trance comunicativa tra due apparenti opposti, una sorta di finzione che induce il lettore a scegliere tra agens e auctor. Ma vi è un lettore che voglia destreggiarsi tra gli interstizi di questa scrittura colta, che annuncia auctoritates (gli eserghi) e introduce nel labirinto della presenza dei calchi, delle allusioni non per sfoggio ma perché patrimonio che Bianchi ha ereditato e introitato col duro lavoro di lettore e saggista? Un’arte anche la lettura, perché scrivere significa aver letto; forse è vero che è già stato scritto tutto, e nella concessione di avere anche letto tutto la scrittura si rinnova come qualunque cosa che vibra nel nostro mondo sensibile e offre la magia di un dialogo tra chi scrive e chi legge, ciascuno contraddistinto da un proprio stato e statuto.

Magra stagione

La data del nostro amore
in tavola
sull’etichetta
di un vasetto rosso.

Quel giorno eterno
c’era già chi
pensava all’inverno:
pomodori secchi. (pag. 65)

 

Passato di sabbia al setaccio
bambino,
qualcosa si salva ostinato
(l’avevi scommesso all’alba)
qualcos’altro ribatte il sole
nei vetri sulla riva relegato,
pur essendo polvere tutto.

Polveri di un gioco insensato
che taglia. (pag. 67)